mercoledì 17 dicembre 2014

AsSaggi di Letteratura di S. Mauriello: Gadda e il dettaglio del mondo, forse barocco


La prima volta che ho aperto Quer pasticciaccio brutto de via Merulana sono rimasta senza parole. Forse perché Gadda le usava già tutte, forse perché veramente non riuscivo a comprendere cosa mi stesse dicendo. Dietro a quel cumulo di pensieri addensati, a quelle schiere di aggettivi, a quelle accumulazioni caotiche, a quell'espressionismo coatto, non riuscivo a cogliere il filo conduttore delle immagini. Eppure qualcosa c'era, e ne ero consapevole. Gadda va analizzato nelle viscere, va scavato nel profondo. Cercare di dare un quadro completo di una figura così frammentata nel poco spazio che mi concedo ogni volta, sarà senza dubbio una sfida ardua, ma vale la pena provarci.
Quella di Gadda è chiaramente una prosa che nasce da una prova poetica. Non serve un genio né un esperto a comprenderlo, ma delle sue poesie non si parla perché, appunto, furono prove. Nel 1954 affermò che già a diciassette anni aveva una rima facilissima, come ricorda Giorgio Patrizi in Carlo Emilio Gadda, fu quello il terreno della sua sperimentazione. Nella poesia Gadda crea un sistema di immagini, visioni, evocazioni che con l'ausilio di un lessico aulico definiscono un rapporto ben definito tra soggetto, storia e natura. Di poesie ne scrisse solo venticinque, dodici rimasero inedite fino alla sua morte. Una di esse, in fondo la più importante, fu inserita dall'autore in chiusura alla Cognizione del dolore, Autunno. Lo stesso Contini affermò che vi è una spinta tutta lirica a muovere Gadda, la cifra primaria della sua scrittura.
Cercare di comprendere complessità della prosa gaddiana senza averne letto almeno qualche riga diventa un'impresa ancora più ardua. Vi offro un estratto dalla Cognizione, uno di quelli a cui sono più affezionata.

Ed erano appunto in procinto di addivenire a quell’atto imprevisto, e però curiosissimo, ch’era cosí instantemente evocato dalla tensione delle circostanze.
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d’argento: poi, dal portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d’oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, rinchiuso nel frattempo dall’altra mano, con un tatràc; la mettevano ai labbri; e allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor frotte, onnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. Passati alla cerimonia dei fiammiferi, ne rinvenivano finalmente, dopo aver cercato in due o tre tasche, una bustina a matrice: ma, apertala, si constatava che n’erano già stati tutti spiccati, per il che, con dispitto, la bustina veniva immantinenti estromessa dai confini dell’Io. E derelitta, ecco, giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stanata ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo, ubiqua immagine del Fisco Uno e Trino, fino a denudare in quella pettinetta miracolosa la Urmutter di tutti gli spiritelli con capocchia. Ne spiccavano una unità, strofinavano, accendevano; spianando a serenità nuova fronte, già cosí sopraccaricata di pensiero: (ma pensiero fessissimo, riguardante, per lo più, articoli di bigiutteria in celluloide). Riponevano la non più necessaria cartina in una qualche altra tasca: quale? oh! se ne scordano all’atto stesso; per aver motivo di rinnovare (in occasione d’una contigua sigaretta) la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli “altri tavoli”, aspiravano la prima boccata di quel fumo d’eccezione, di Xanthia, o di Turmac; in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico.
E cosí rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell’Aida o il toreador della Carmen.
Cosí rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori.

Alla fine di un pranzotto borghese al ristorante, i commensali estraggono una sigaretta dal taschino e la fumano. Tutto qui. Sintesi un po' riduttiva senza dubbio, ma è ciò che accade. È questo il misero plot di una delle narrazioni più nobili di sempre. È l'attenzione al dettaglio il campo di forze che dilata la prosa, moltiplica i piani, rende al lettore immagini perfettamente confezionate, cesellate allo sfinimento. Per questo Gadda fu definito barocco, per la sua moltitudine esatta, ma nel 1963 Gadda stesso rispose a quell'accusa nella sua apologia in apertura alla Cognizione «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine». Il suo è uno spettacolo linguistico senza pari, così l'ha definito Dambroski e così voglio definirlo anch'io. I piani espressivi si aprono a una lingua che rende tutto proprio, dal passato più remoto a un futuro che si manifesta nelle sue neoformazioni perché nelle sue vene di «bastardo è sangue ungaro e celtico, visigotico e longobardico. E poi una congerie di modelli e una moltitudine di maestri: e verso questi una mia diligenza, cioè quasi un amore. E una disciplina, cioè quasi una guerra» (l'autore stesso così si presenta). Voglio chiudere l'AsSaggio più breve di sempre senza avervi detto troppo, né troppo poco. E se mai sarò riuscita nel mio intento di stimolare in voi il desiderio di una lettura gaddiana, sappiate che nessuna delle sue opere è stata portata a termine e che per avvicinarsi a quel mondo la cui complessità è moltiplicata da fondamenta filosofiche che spaziano da Spinoza, a Leibniz, a molto altro ancora, ci sono una miriade di racconti pronti per essere interpellati.

Serena Mauriello

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